domenica 20 dicembre 2009

La neve


La neve è arrivata. Quando accade resti sempre sorpreso tanto appare irreale. L’aria si riempie di puntini che sembra non cadere ma solo fluttuare. Poi tutto si ricopre di un mantello bianco e perfetto, e allora capisci che è vero.
La mattina si era presentata come una giornata limpida e piena di sole, di quelle sporadiche in inverno, col cielo terso, il freddo tagliente, e una luce che fa sbattere gli occhi. Era un peccato rinchiudersi, avevo pensato mentre andavo in ufficio. Avrei desiderato, che so, farmi 10 chilometri a piedi, come accadeva ai tempi di New York, quando andavo su è giù per le “avenues” col trolley carico, eccitata dal sole. Qualche ora più tardi mi ero voltata verso la finestra, e avevo visto che il cielo era diventato plumbeo. “Sembra di stare in montagna”, avevo detto alla mia collega. 
Io odio la montagna.  Mi ricorda le stagioni della casa in affitto, col mio fidanzato, del compromesso per sopravvivere ai weekend di coppia, per evitare quel “allora cosa si fa”.


Noi la prendevamo al Cimone. Sestola piace anche a me che non scio, poi la gente è cordiale e tutto appare meno tetro. L’unico periodo della mia vita in cui ho cucinato, lunghe maestose cene organizzate al sabato sera, coi pomeriggi trascorsi alla ricerca del menù perfetto, e la casa riempita di gente, scarponi, chiacchiere e allegria. Ciò nonostante non l’ho mai amata. L’ho subita. Per amore, necessità, ragionamento logico. Niente a che vedere col mare. Lì sto bene, mi dà gioia anche quando è triste, anzi, nella malinconia più acuta mi è affine. Io che lo temo, non so nuotare, mi schifo della sabbia appiccicosa, il mare lo adoro in tutte le sue salse: punta massima d'inverno, dopo la pioggia, quando non c’è nessuno e l’aria profuma di freddo e sale. C’è qualcosa d’impetuoso e sconosciuto  nel mare, anche quando è calmo, una forza che percepisco e diventa mia. Il mare, non quello addomesticato, fatto di corpi sovraesposti, ciabatte alla moda e completini colorati. No, quello vero, selvatico.


La montagna è morte istantanea, forse per questo ho ignorato la finestra sistematicamente, quasi con intenzione, fino alle otto di sera. Fino a quando, aspettando che S. richiamasse da New York, giostrando sulla poltrona, non mi è apparso un chiarore oltre la porta finestra; la mia auto parcheggiata sotto gli alberi coperta da un mantello, alto di neve indelebile, e i prati, le aiuole della stazione, il piazzale sotto, tutto sommerso, immacolato e bianco.
Le luci delle auto proseguono a passo d’uomo sulla strada, di tanto in tanto accendono il bianco sulla mia auto, inerte sotto i grandi tigli spogli e carichi di neve. Tutto è così irreale.
Chiama mia madre, come stai, vieni a casa.
Chiama mio padre, dal suo telefono nella stanza accanto a mia madre, vieni via, la neve è dappertutto.
Dai babbo, mica siamo sull’Appennino, sono in città, che vuoi che sia un po’ di neve, fammi andare che S. deve chiamare.
Sono rassegnata ma vorrei essere a casa, questa neve fa un effetto strano, accentua l’assurdità. Di me, di questo venerdì sera, della vita che non è ancora finita, del lavoro come una catena.  Come vorrei, ora, quell’unica persona, che sa vedere, capire, leggere in questa confusione e mirare dritto al punto.
Cazzo, sempre questi sogni. La neve continua a cadere e io aspetto. La prossima telefonata, altre istruzioni, indicazioni. Ma come fai a sopportarlo.  Mai il 100% di attenzione, c’è sempre un’altra chiamata, una nuova emergenza, tu che passi in secondo piano, anche se sono le nove di sera, anche se è venerdì e dovresti essere altrove. Ma c’è questo senso di pena che percepisci e non sai ignorare, di come le cose vanno male e in fondo sei coinvolta, e lui è despota ma debole. Non riesci a non odiarlo per il male che ti ha fatto in questi 5 anni, ma d’altronde che alternativa c’è, nessuna. Sei sulla barca, e il senso di pena è dove ti frega sempre, dove tu cedi e lui no. Così aspetti l’ennesima chiamata, ed esci dall’ufficio finalmente, nel silenzio della notte bianca, con le auto che passano piano, come in un video senza audio.
Torni a casa incerta sul ghiaccio, a passo d’uomo, ma più di tutto ti sorprende quella sensazione, irreale come quando una voce ti parla dentro. La neve rende tutto più lento, come a riprendere il ritmo. E anche a piedi non incontri un’anima. Il guardiano del parcheggio è murato nel gabbiotto, attraversi il centro storico nel silenzio, con la neve che ti cade addosso, e ti rifugi in casa pensando, tra e-mail, musica, vino e tanto stordimento.
Dei ragazzi schiamazzano facendo a pallate, surreale in piazza del Duomo; li spii dalla finestra e poi trascorri la notte alzata, e sogni, no, t’interroghi, “cosa mi porterà domani”.
La neve è arrivata in silenzio e ha rallentato tutto. Pare un segnale.

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