domenica 3 agosto 2008

Sempre la solita lagna

Mi sa che era meglio quando scrivevi del mal d’amore…o dell’assenza d’amore…o delle fregature dell’amore…o delle pare che ti fai nella caccia all’amore…che poi è sempre la stessa storia fatta di malintesi e di furbizie di quelli più furbi di te e di strazio di te che arrivi sempre dopo…mi sa che era meglio quando si stava peggio…eccetera eccetera….perchè ora che hai chiuso la porta così le pare non te le fai più…ora che non entra più neanche un filo di linfa vitale…ora che la debolezza..che poi sarebbe la tenerezza… l’hai chiusa fuori per sempre…almeno così dici a te stessa…ora c’è qualcosa di ben peggiore da fronteggiare…


perché ora che tutto il tuo universo è la professione…la carriera pensavi…ora che anche in questo settore hai ottenuto lo stesso identico risultato di sempre…mettere tutta te stessa…dar via tutto ciò che avevi…piena di aspettative...e le cose manco a dirlo non sono andate come ti aspettavi…ora c’è da fare i conti con qualcosa di peggio che la tristezza…ed il rimpianto…e il bruciore della ferita momentanea…ora sul piatto della bilancia c’è il risultato di tutta la tua vita…perché sull’amore in fondo non ci hai contato mai…in fondo l’hai sempre saputo che per te non sarebbe stato semplice vivere “l’Amore”…trovare la persona giusta…lo sai come sei fatta…ma la professione…quella è la tua vita…è sempre stata il tuo cardine…quello per cui tirare avanti…la cosa cui attaccarsi di fronte ad ogni smarrimento…ora che anche qui la botta è arrivata…e questa volta davvero forte…molto molto forte…ora il conto è pesante…ora c’è da gestire questo cuore pieno di amarezza…e di rancore…di veleno…e per resistere a tutto tiri fuori di tutto…la corazza più dura…l’espressione più severa…la voce più tagliente…lo scatto più aggressivo…ora spazzi via dalla tua vita ogni fragilità…ti aggrappi alla razionalità più estrema…ora diventi brutta….non ti curi più…non ti trucchi più…non ti guardi più…e per resistere diventi pesante…e metti su chili e chili…che devi andare avanti ogni giorno senza cadere più…e quello che senti dentro ti ripugna…e ti scopri che ripeti sempre le stesse parole…pensieri assillanti…hai letto una storia terribile di un ragazzo violentato che da adulto aveva pensieri ossessivi…e ti vergogni tanto di avere quello stesso sintomo…che in fondo il tuo è solo un mal dell’esistenza…di quella tua mancanza di equilibrio tra il dare e l’avere…di quel tuo non avere imparato mai a credere meno a chi non conosci bene…e ti vergogni perché tutto questo è esperienza dell’adolescenza…e non puoi dirlo a nessuno che tu la vivi quasi a cinquant’anni…ti vergogni di non saper gestire il vortice…di frustrazione…di rabbia…di dolore…di non avere il minimo autocontrollo…e non ti piaci…tutto questo non ti piace…e senti le cose che si accumulano…strati su strati…e sarà impossibile spiegare…spiegare agli altri chi sei…chi sei veramente…sarà come Michelangelo…che del suo Davide disse di aver soltanto tolto strati di marmo e l’opera meravigliosa era già sotto…ma non sarà così…la realtà non è cosi…e forse allora meglio tornare al peggio che forse era meglio…meglio piangersi addosso sul blog…che ti fa pure pena ma almeno un po’ di questo rancore uscirà fuori…almeno un po’ di veleno tracimerà via da te sperando che sia meglio…e poi magari qualche visitatore te ne canterà tre o quattro…che non è nemmeno giusto dato che questo è un posto pubblico ma privato…ma comunque te ne canterà quattro qualcuno che non ha voglia di trovarsi sempre lagne davanti agli occhi…e allora tu smetterai per cinque minuti…per cinque minuti smetterai di avercela con loro…che poi sarebbe con te stessa…fino alla prossima volta…al prossimo attacco di rabbia…al prossimo veleno…e ancora ti interroghi…ti lambicchi il cervello se esista mai una cura…una trasfusione che faccia diventare leggere le anime pesanti…che renda pulito il sangue di chi ce l’ha avvelenato…che il tuo orgoglio è sempre stato l’innocenza…l’anima pulita…e ora senti che non è più così

Lui

Il silenzio. Il silenzio in testa. Anche quella mattina aveva aperto gli occhi nel silenzio. Aveva mosso lo sguardo nello spazio familiare della sua camera, osservando le linee pulite e rassicuranti del comò alla destra del letto, la lampada, la piccola poltrona, il tavolo nell’angolo opposto, accanto alla finestra, dove raggi di luce attraversando le tende chiare  tagliavano l’aria della stanza. Il silenzio era divenuto assordante. Cercò di ricordare quando era cominciato, quel silenzio gli pareva familiare e al tempo stesso estraneo. Vide i suoi vestiti pendere dall’attaccapanni, appoggiati lì dalla sera prima, e scese dal letto trascinandosi in direzione del bagno, lasciando scomposte dietro sé le lenzuola bianche. Entrò sotto i getti caldi della doccia, appoggiandosi con le mani al rivestimento sul muro, gli occhi chiusi, lasciando che l’acqua gli scorresse sui capelli e sul  viso e giù giù sul corpo scivolando  via nello scarico. La musica era  parte della sua vita dall’inizio della sua memoria. Gli tornò in mente la prima volta davanti al piano, quel grande piano a casa degli zii, lui seduto lì coi piedi che dondolavano nel vuoto, e intorno a sé gli sguardi divertiti degli adulti, il sorriso orgoglioso di sua madre, quello semicelato e compiaciuto di suo padre. Il  piano che nella sua vita era stato gioco, scoperta, conquista.. Quel silenzio ora era ingombrante. Voleva indietro la sua solita vita. Voleva indietro la sua follia, quando la sua testa era sempre fissa sulla musica, sollevato un metro da terra, come colpito da un virus. Ora invece gli pareva la vera malattia. Chiuse l’acqua e si strofinò forte con l’ asciugamano, quasi a ricercare il vecchio se stesso, e nello specchio sopra il lavabo vide la sua immagine. Aveva il corpo di chi ha scordato spesso di mangiare, trascorrendo notti insonni e anni chiuso a creare, la sigaretta fedele compagna, e lo sguardo libero da ogni rabbia di chi ha vissuto nutrendo l’anima.  Riccioli gli scendevano scomposti attorno al viso, scostò una ciocca sulle tempie, in un gesto ansioso, guardando più da vicino.  Aveva 47 anni, ed era ancora un giovane uomo, si disse, e si stupì che fosse questa la prima volta che ci pensava, la prima volta che faceva bilanci, costretto dal quel silenzio in testa che ora sembrava accanirsi contro di lui.


In cucina, aspettando che salisse il caffè, accese la radio, fece scorrere i canali. Pensò che la musica era stata per lui la scoperta di emozioni nella pienezza e nell’assoluta libertà in cui esse si possono esprimere. Da sempre lo aveva attratto in modo inconsapevole in una dimensione eterea e mistica catturandolo nella sua magia  come un innamoramento. Ricordò i suoi amori da giovane, turbolenti e contrastati, le donne che ogni volta aveva creduto di amare, che inevitabilmente si allontanavano deluse, stanche di aspettare. Certo, si disse, difficile da capire per chi non prova lo stesso. A volte si alienava a tal punto da perdere la cognizione del tempo, del luogo. Stava tra i suoi spartiti ore, giorni, dimenticando di mangiare, di dormire. Si trovava improvvisamente catapultato su di un altro pianeta saltando gli impegni precedentemente presi, disinteressandosi di cose a cui prima era interessato. Era vittima della dolcissima, straziante, incontrollabile seduzione di quell’amore: la musica.  Si interrogò se in fondo avesse mai realmente perseguito un ideale preciso di donna,  di amore, o se ogni volta fosse piuttosto caduto sedotto da una visione di bellezza,  colpito da  emozione bruciante in quel miraggio di armonia che sempre lo irretiva per stemperarsi poi nel divenire. Di tutti gli amori, la musica era l’unico ad averlo accompagnato per tutta la sua vita, lasciandolo sempre appagato. Fino ad allora. 


Una voce morbida, lievemente rauca, e fermò le dita che scorrevano sulla manopola di selezione. Bevve il caffè lasciando che le note colmassero l’aria e quella voce scendesse piano e dolce dentro di lui. Quella voce ora evocava spazi e tempi lontani. Si guardò intorno, e nella quiete del primo mattino, circondato di comode abitudini, ripensò ai suoi, una vita trascorsa insieme. Anche nell’ultimo viaggio sua madre aveva seguito suo padre quasi subito. Un modello, una struttura di vita, quella dei suoi,  da lui inconsapevolmente inseguita, forse, fatta di rigore, forza d’unione, e amore semplice, pacato, di sentimenti riservati e stabilità. Cercò d’immaginarsi molti anni più avanti. Quella voce morbida dalla radio ora gli suggeriva dell’altro. Ora vedeva quella sua indipendenza, la ricerca di armonia, il suo desiderio di migliorarsi, quella sensibilità espressa attraverso la sua arte su cui aveva concentrato sé stesso, ritirandosi spesso nel suo mondo fantastico, come portarlo lontano, via da quel modello di vita che  sentiva ora di volere per sé.  


Riordinò la stanza con pochi gesti consueti, vecchi di anni, in una disciplina  trasmessagli da suo padre come un nome. Un insegnamento, quella disciplina, che con perseveranza, determinazione, lo aveva portato fin lì, quasi in equilibrio tra istinto e ottimismo.  Ripensò ai suoi anni di studio lontano da casa, e ai sacrifici fatti da suo padre, che lo sognava ingegnere. A quei pomeriggi e sere rubati alle lezioni e ai libri, e trascorsi invece nei locali, nei piano-bar, per non privarsi mai della gioia di suonare ogni giorno. E si ricordò di quella prima volta che gli avevano offerto di suonare come lavoro, i primi soldi guadagnati con la sua musica, a cui ne erano seguiti altri, e la gioia infinita di divenire indipendente della sua arte, quando finalmente anche suo padre aveva capito e si era arreso, supportandolo da quel momento in poi, come già aveva fatto quando da piccolo, orgoglioso di quel figlio e del suo talento, aveva assecondato la sua passione per il piano permettendogli di studiare musica, senza mai immaginare che potesse farne un mestiere.  Alla sua famiglia, a suo padre, sentiva di dovere tutto. Tutto ciò che era, che aveva raggiunto. Perché nella sua terra la gente lavorava duro, i mestieri che si fanno sono altri.  Vivere d’arte. Dentro di sé sentì sgorgare una riconoscenza profonda, viva e pulsante, e insieme ad essa il senso di colpa, per quel silenzio che ora invece l’invadeva, ora che il successo era raggiunto, che tutti suoi obiettivi, i suoi sogni, si erano realizzati. Ora lo smarrimento colpiva i suoi sensi. Ora neppure la fede, quella fede che coltivava da sempre, sembrava spiegare quel mutamento. Ora era preda di quel silenzio che gli offuscava la mente, stillava angoscia nella sua anima, gli bloccava le membra.  





Finì di vestirsi, semplicemente, con cura, e prese a riporre pochi oggetti in una piccola sacca nera. Portafoglio, documenti, un taccuino, una matita, un libro di Vinicius De Moraes,  “Per vivere un grande amore”, poi aprì la porta e si avviò a piedi per le strade di Roma. Anche questo era parte di quella disciplina innata, il ricercare se stesso vagando solo in mezzo alla moltitudine. Era un mattino d’inizio aprile, quando l’aria è già tiepida e profumata, e  la primavera è ovunque e tutto il creato sembra  incitarti a gioire, a partecipare alla vita.  Di tutte le città dove aveva vissuto da quando aveva lasciato la sua terra, moltissimi anni prima, Roma era l’unica dove riusciva a ritrovarsi. E lì aveva scelto di fermarsi. Lì, circondato di bellezza e di storia, in mezzo all’arte e ai popoli di tutto il mondo, lì sentiva Dio. Gli tornò alla memoria il mare della sua terra, e quelle albe da piccolo, trascorse con suo padre sulle rive dove i pescatori tiravano le reti. E quell’orizzonte lontano, quello spazio immenso e arcano dove allora lui credeva dimorasse Dio,  quando la luce del sole si mischiava all’acqua del mare, e nel dissiparsi della nebbia restavano solo i riflessi delle prime luci sulla macchia scura dell’acqua a farla luccicare.  In quella terra  sua madre gli aveva trasmesso la fede, e insegnato l’amore.  L’amore puro e quotidiano, grande e universale. Amore per il prossimo e per quella terra, le sue origini, le cose vere e semplici. E di questo semplicità era vissuto tutta la vita, come in un credo ulteriore, un’altra forma di religione. Questo era il dono che sua madre gli aveva lasciato, la forza che lo aveva guidato da sempre. Ora era il momento in cui sua madre gli mancava di più. Ora per la prima volta sentiva in sé quella forza vacillare ed ecco di nuovo quello smarrimento. Di tutte le solitudini che aveva vissuto negli anni era ora che per la prima volta si sentiva solo. Ora che la sua follia si era dissipata come quella nebbia mattutina sul mare lasciando improvvisamente  alla luce del giorno la sua reale solitudine. Ora che non c’erano più i suoi a colmare il suo immenso bisogno di affetto quotidiano, che non aveva più l’abbraccio stabile della sua famiglia, proprio ora la musica nella sua testa era divenuta muta e l’amore si era allontanato. Ora il successo, le comodità, gli amici, sembravano essersi fatti da parte a mostrargli tutti uno spazio ancora vuoto intorno a lui. E allora gli riecheggiò nelle orecchie quella voce morbida e dolce trasmessa alla radio al mattino, una voce che sapeva di casa, e di amore, e compagnia, e  affetto profondo, e certezze, e pensò che una voce così poteva colmare lo spazio, anche quello vuoto intorno a lui. Pensò che voleva innamorarsi di nuovo ma non come una follia. Pensò che voleva innamorarsi nella certezza di un’unione forte, semplice, pura come i valori in cui credeva. Pensò che ora non voleva sognare. Ora voleva sperare, e credere, e costruire. Ora voleva svegliarsi con l’amore in testa, ed il sorriso sulle labbra e negli occhi, e la donna della sua vita accanto a sé.