sabato 20 settembre 2008

Oggi


Tutti gesticolano, parlano, parlano al telefono prevalentemente, sono distratti. Ogni metro che ho percorso oggi era pieno di gente, tutti presi da sé stessi, senza vedere.


Ho pensato: chissà quante volte sono stata così.


All’andata ho scontrato un gruppetto con una ragazza cieca. Ho visto prima il suo bastone bianco, fatto a sezioni, come uno di quei metri da falegnami che si ripiegano tutti. Ho visto il bastone e ho capito. Così le ho guardato il viso, gli occhi, tanto non poteva vedermi. Aveva le iridi che sembravano girate. E per un momento, un momento lungo un anno, per quel momento mi sono vergognata. Non so perché, non è colpa mia se è cieca, eppure mi sono vergognata: una bruciante scivolosa densa vergogna. All’andata ero di fretta, faticavo sui pietroni sconnessi del pavè col mal di schiena che litigava con la lena e la foga di fare svelta. Sentivo la grinta dipinta sul viso e sapevo mi avrebbero vista brutta. E ho lasciato perdere, chè in fondo brutta è come sono, brutta per l’amarezza, la vuotezza, la delusione, il senso di sconfitta. E’ come un terriccio puzzolente depositato sul fondale e l’acqua non può essere che nera e putrida. Ed ho persino smesso di prendermela se in fondo sono brutta così, che tanto non posso più farci niente, tanto è così. Mentre tornavo non sentivo più nulla, neppure il mal di schiena. Mentre tornavo era la gente, tutta quella gente che vedevo. Ognuno cieco in mezzo alle persone, in mezzo ai fatti, al vento, al sole e all’aria mattutina del mezzogiorno.


E ho scontrato una bambina sul passeggino guidato da suo padre. E lui mi ha guardato e io volevo essere lei senza quel padre. E la vedevo con le braccine spalancate un po’ sporta in fuori a guardare l’aria intorno a se con gli occhi spalancati e golosi. E volevo quegli occhi che vedevano, vedevano tutto, tutto ciò che accade. Vedevano tutto ciò che davvero c’è, e oltre.

domenica 3 agosto 2008

Sempre la solita lagna

Mi sa che era meglio quando scrivevi del mal d’amore…o dell’assenza d’amore…o delle fregature dell’amore…o delle pare che ti fai nella caccia all’amore…che poi è sempre la stessa storia fatta di malintesi e di furbizie di quelli più furbi di te e di strazio di te che arrivi sempre dopo…mi sa che era meglio quando si stava peggio…eccetera eccetera….perchè ora che hai chiuso la porta così le pare non te le fai più…ora che non entra più neanche un filo di linfa vitale…ora che la debolezza..che poi sarebbe la tenerezza… l’hai chiusa fuori per sempre…almeno così dici a te stessa…ora c’è qualcosa di ben peggiore da fronteggiare…


perché ora che tutto il tuo universo è la professione…la carriera pensavi…ora che anche in questo settore hai ottenuto lo stesso identico risultato di sempre…mettere tutta te stessa…dar via tutto ciò che avevi…piena di aspettative...e le cose manco a dirlo non sono andate come ti aspettavi…ora c’è da fare i conti con qualcosa di peggio che la tristezza…ed il rimpianto…e il bruciore della ferita momentanea…ora sul piatto della bilancia c’è il risultato di tutta la tua vita…perché sull’amore in fondo non ci hai contato mai…in fondo l’hai sempre saputo che per te non sarebbe stato semplice vivere “l’Amore”…trovare la persona giusta…lo sai come sei fatta…ma la professione…quella è la tua vita…è sempre stata il tuo cardine…quello per cui tirare avanti…la cosa cui attaccarsi di fronte ad ogni smarrimento…ora che anche qui la botta è arrivata…e questa volta davvero forte…molto molto forte…ora il conto è pesante…ora c’è da gestire questo cuore pieno di amarezza…e di rancore…di veleno…e per resistere a tutto tiri fuori di tutto…la corazza più dura…l’espressione più severa…la voce più tagliente…lo scatto più aggressivo…ora spazzi via dalla tua vita ogni fragilità…ti aggrappi alla razionalità più estrema…ora diventi brutta….non ti curi più…non ti trucchi più…non ti guardi più…e per resistere diventi pesante…e metti su chili e chili…che devi andare avanti ogni giorno senza cadere più…e quello che senti dentro ti ripugna…e ti scopri che ripeti sempre le stesse parole…pensieri assillanti…hai letto una storia terribile di un ragazzo violentato che da adulto aveva pensieri ossessivi…e ti vergogni tanto di avere quello stesso sintomo…che in fondo il tuo è solo un mal dell’esistenza…di quella tua mancanza di equilibrio tra il dare e l’avere…di quel tuo non avere imparato mai a credere meno a chi non conosci bene…e ti vergogni perché tutto questo è esperienza dell’adolescenza…e non puoi dirlo a nessuno che tu la vivi quasi a cinquant’anni…ti vergogni di non saper gestire il vortice…di frustrazione…di rabbia…di dolore…di non avere il minimo autocontrollo…e non ti piaci…tutto questo non ti piace…e senti le cose che si accumulano…strati su strati…e sarà impossibile spiegare…spiegare agli altri chi sei…chi sei veramente…sarà come Michelangelo…che del suo Davide disse di aver soltanto tolto strati di marmo e l’opera meravigliosa era già sotto…ma non sarà così…la realtà non è cosi…e forse allora meglio tornare al peggio che forse era meglio…meglio piangersi addosso sul blog…che ti fa pure pena ma almeno un po’ di questo rancore uscirà fuori…almeno un po’ di veleno tracimerà via da te sperando che sia meglio…e poi magari qualche visitatore te ne canterà tre o quattro…che non è nemmeno giusto dato che questo è un posto pubblico ma privato…ma comunque te ne canterà quattro qualcuno che non ha voglia di trovarsi sempre lagne davanti agli occhi…e allora tu smetterai per cinque minuti…per cinque minuti smetterai di avercela con loro…che poi sarebbe con te stessa…fino alla prossima volta…al prossimo attacco di rabbia…al prossimo veleno…e ancora ti interroghi…ti lambicchi il cervello se esista mai una cura…una trasfusione che faccia diventare leggere le anime pesanti…che renda pulito il sangue di chi ce l’ha avvelenato…che il tuo orgoglio è sempre stato l’innocenza…l’anima pulita…e ora senti che non è più così

Lui

Il silenzio. Il silenzio in testa. Anche quella mattina aveva aperto gli occhi nel silenzio. Aveva mosso lo sguardo nello spazio familiare della sua camera, osservando le linee pulite e rassicuranti del comò alla destra del letto, la lampada, la piccola poltrona, il tavolo nell’angolo opposto, accanto alla finestra, dove raggi di luce attraversando le tende chiare  tagliavano l’aria della stanza. Il silenzio era divenuto assordante. Cercò di ricordare quando era cominciato, quel silenzio gli pareva familiare e al tempo stesso estraneo. Vide i suoi vestiti pendere dall’attaccapanni, appoggiati lì dalla sera prima, e scese dal letto trascinandosi in direzione del bagno, lasciando scomposte dietro sé le lenzuola bianche. Entrò sotto i getti caldi della doccia, appoggiandosi con le mani al rivestimento sul muro, gli occhi chiusi, lasciando che l’acqua gli scorresse sui capelli e sul  viso e giù giù sul corpo scivolando  via nello scarico. La musica era  parte della sua vita dall’inizio della sua memoria. Gli tornò in mente la prima volta davanti al piano, quel grande piano a casa degli zii, lui seduto lì coi piedi che dondolavano nel vuoto, e intorno a sé gli sguardi divertiti degli adulti, il sorriso orgoglioso di sua madre, quello semicelato e compiaciuto di suo padre. Il  piano che nella sua vita era stato gioco, scoperta, conquista.. Quel silenzio ora era ingombrante. Voleva indietro la sua solita vita. Voleva indietro la sua follia, quando la sua testa era sempre fissa sulla musica, sollevato un metro da terra, come colpito da un virus. Ora invece gli pareva la vera malattia. Chiuse l’acqua e si strofinò forte con l’ asciugamano, quasi a ricercare il vecchio se stesso, e nello specchio sopra il lavabo vide la sua immagine. Aveva il corpo di chi ha scordato spesso di mangiare, trascorrendo notti insonni e anni chiuso a creare, la sigaretta fedele compagna, e lo sguardo libero da ogni rabbia di chi ha vissuto nutrendo l’anima.  Riccioli gli scendevano scomposti attorno al viso, scostò una ciocca sulle tempie, in un gesto ansioso, guardando più da vicino.  Aveva 47 anni, ed era ancora un giovane uomo, si disse, e si stupì che fosse questa la prima volta che ci pensava, la prima volta che faceva bilanci, costretto dal quel silenzio in testa che ora sembrava accanirsi contro di lui.


In cucina, aspettando che salisse il caffè, accese la radio, fece scorrere i canali. Pensò che la musica era stata per lui la scoperta di emozioni nella pienezza e nell’assoluta libertà in cui esse si possono esprimere. Da sempre lo aveva attratto in modo inconsapevole in una dimensione eterea e mistica catturandolo nella sua magia  come un innamoramento. Ricordò i suoi amori da giovane, turbolenti e contrastati, le donne che ogni volta aveva creduto di amare, che inevitabilmente si allontanavano deluse, stanche di aspettare. Certo, si disse, difficile da capire per chi non prova lo stesso. A volte si alienava a tal punto da perdere la cognizione del tempo, del luogo. Stava tra i suoi spartiti ore, giorni, dimenticando di mangiare, di dormire. Si trovava improvvisamente catapultato su di un altro pianeta saltando gli impegni precedentemente presi, disinteressandosi di cose a cui prima era interessato. Era vittima della dolcissima, straziante, incontrollabile seduzione di quell’amore: la musica.  Si interrogò se in fondo avesse mai realmente perseguito un ideale preciso di donna,  di amore, o se ogni volta fosse piuttosto caduto sedotto da una visione di bellezza,  colpito da  emozione bruciante in quel miraggio di armonia che sempre lo irretiva per stemperarsi poi nel divenire. Di tutti gli amori, la musica era l’unico ad averlo accompagnato per tutta la sua vita, lasciandolo sempre appagato. Fino ad allora. 


Una voce morbida, lievemente rauca, e fermò le dita che scorrevano sulla manopola di selezione. Bevve il caffè lasciando che le note colmassero l’aria e quella voce scendesse piano e dolce dentro di lui. Quella voce ora evocava spazi e tempi lontani. Si guardò intorno, e nella quiete del primo mattino, circondato di comode abitudini, ripensò ai suoi, una vita trascorsa insieme. Anche nell’ultimo viaggio sua madre aveva seguito suo padre quasi subito. Un modello, una struttura di vita, quella dei suoi,  da lui inconsapevolmente inseguita, forse, fatta di rigore, forza d’unione, e amore semplice, pacato, di sentimenti riservati e stabilità. Cercò d’immaginarsi molti anni più avanti. Quella voce morbida dalla radio ora gli suggeriva dell’altro. Ora vedeva quella sua indipendenza, la ricerca di armonia, il suo desiderio di migliorarsi, quella sensibilità espressa attraverso la sua arte su cui aveva concentrato sé stesso, ritirandosi spesso nel suo mondo fantastico, come portarlo lontano, via da quel modello di vita che  sentiva ora di volere per sé.  


Riordinò la stanza con pochi gesti consueti, vecchi di anni, in una disciplina  trasmessagli da suo padre come un nome. Un insegnamento, quella disciplina, che con perseveranza, determinazione, lo aveva portato fin lì, quasi in equilibrio tra istinto e ottimismo.  Ripensò ai suoi anni di studio lontano da casa, e ai sacrifici fatti da suo padre, che lo sognava ingegnere. A quei pomeriggi e sere rubati alle lezioni e ai libri, e trascorsi invece nei locali, nei piano-bar, per non privarsi mai della gioia di suonare ogni giorno. E si ricordò di quella prima volta che gli avevano offerto di suonare come lavoro, i primi soldi guadagnati con la sua musica, a cui ne erano seguiti altri, e la gioia infinita di divenire indipendente della sua arte, quando finalmente anche suo padre aveva capito e si era arreso, supportandolo da quel momento in poi, come già aveva fatto quando da piccolo, orgoglioso di quel figlio e del suo talento, aveva assecondato la sua passione per il piano permettendogli di studiare musica, senza mai immaginare che potesse farne un mestiere.  Alla sua famiglia, a suo padre, sentiva di dovere tutto. Tutto ciò che era, che aveva raggiunto. Perché nella sua terra la gente lavorava duro, i mestieri che si fanno sono altri.  Vivere d’arte. Dentro di sé sentì sgorgare una riconoscenza profonda, viva e pulsante, e insieme ad essa il senso di colpa, per quel silenzio che ora invece l’invadeva, ora che il successo era raggiunto, che tutti suoi obiettivi, i suoi sogni, si erano realizzati. Ora lo smarrimento colpiva i suoi sensi. Ora neppure la fede, quella fede che coltivava da sempre, sembrava spiegare quel mutamento. Ora era preda di quel silenzio che gli offuscava la mente, stillava angoscia nella sua anima, gli bloccava le membra.  





Finì di vestirsi, semplicemente, con cura, e prese a riporre pochi oggetti in una piccola sacca nera. Portafoglio, documenti, un taccuino, una matita, un libro di Vinicius De Moraes,  “Per vivere un grande amore”, poi aprì la porta e si avviò a piedi per le strade di Roma. Anche questo era parte di quella disciplina innata, il ricercare se stesso vagando solo in mezzo alla moltitudine. Era un mattino d’inizio aprile, quando l’aria è già tiepida e profumata, e  la primavera è ovunque e tutto il creato sembra  incitarti a gioire, a partecipare alla vita.  Di tutte le città dove aveva vissuto da quando aveva lasciato la sua terra, moltissimi anni prima, Roma era l’unica dove riusciva a ritrovarsi. E lì aveva scelto di fermarsi. Lì, circondato di bellezza e di storia, in mezzo all’arte e ai popoli di tutto il mondo, lì sentiva Dio. Gli tornò alla memoria il mare della sua terra, e quelle albe da piccolo, trascorse con suo padre sulle rive dove i pescatori tiravano le reti. E quell’orizzonte lontano, quello spazio immenso e arcano dove allora lui credeva dimorasse Dio,  quando la luce del sole si mischiava all’acqua del mare, e nel dissiparsi della nebbia restavano solo i riflessi delle prime luci sulla macchia scura dell’acqua a farla luccicare.  In quella terra  sua madre gli aveva trasmesso la fede, e insegnato l’amore.  L’amore puro e quotidiano, grande e universale. Amore per il prossimo e per quella terra, le sue origini, le cose vere e semplici. E di questo semplicità era vissuto tutta la vita, come in un credo ulteriore, un’altra forma di religione. Questo era il dono che sua madre gli aveva lasciato, la forza che lo aveva guidato da sempre. Ora era il momento in cui sua madre gli mancava di più. Ora per la prima volta sentiva in sé quella forza vacillare ed ecco di nuovo quello smarrimento. Di tutte le solitudini che aveva vissuto negli anni era ora che per la prima volta si sentiva solo. Ora che la sua follia si era dissipata come quella nebbia mattutina sul mare lasciando improvvisamente  alla luce del giorno la sua reale solitudine. Ora che non c’erano più i suoi a colmare il suo immenso bisogno di affetto quotidiano, che non aveva più l’abbraccio stabile della sua famiglia, proprio ora la musica nella sua testa era divenuta muta e l’amore si era allontanato. Ora il successo, le comodità, gli amici, sembravano essersi fatti da parte a mostrargli tutti uno spazio ancora vuoto intorno a lui. E allora gli riecheggiò nelle orecchie quella voce morbida e dolce trasmessa alla radio al mattino, una voce che sapeva di casa, e di amore, e compagnia, e  affetto profondo, e certezze, e pensò che una voce così poteva colmare lo spazio, anche quello vuoto intorno a lui. Pensò che voleva innamorarsi di nuovo ma non come una follia. Pensò che voleva innamorarsi nella certezza di un’unione forte, semplice, pura come i valori in cui credeva. Pensò che ora non voleva sognare. Ora voleva sperare, e credere, e costruire. Ora voleva svegliarsi con l’amore in testa, ed il sorriso sulle labbra e negli occhi, e la donna della sua vita accanto a sé.

martedì 3 giugno 2008

Emozionante.


E’ il film che ho appena visto. Emozionante. Un piccolo film irlandese. Piccolo, si fa per dire. Un film senza violenza, senza “azione”, una storia minuta, che nasce dalla creatività di due ragazzi. Che si incontrano grazie ad una canzone,  uno la canta, l’altra la  beve, elettrizzata. E su quell’onda ne nascono altre. Qualcuno l’ha definito un musical, ma non capisco come. Questo film è quanto di più di lontano ci sia dall’artifizio scenico. Se avete ancora un’anima aperta, che sa emozionarsi col suono sgangherato di una chitarra, se sapete urlare da una moto in corsa, o alzando le braccia al cielo su una spiaggia deserta, allora questo film è per voi. Un film dove non si deve pensare, si entra e si sente. E non intendo con le orecchie. E’ il romanticismo vero, quello senza zucchero. Io, che mi commuovo facile, ho pianto mezzo film. No, la storia non è da lacrime, è che ti sveglia “la pancia”!  Ho letto poi che ha vinto al Sundance Indipendent Festival, che la canzone ha vinto l’Academy Award 2008, e molti altri premi ancora, e allora ho pensato che magari stavolta ci ho azzeccato, stavolta si è emozionato pure qualcun altro oltre me.
Magari molti l’hanno visto…speriamo. Per chi invece no...avanti…cosa state aspettando??

ONCE!

venerdì 9 maggio 2008

Risveglio


La sensazione nebulosa di essere spinta via lontano e riaffiorai dal sonno. Su un angolo tra parete e soffitto si allargavano i raggi del sole mattutino che filtrava dalle persiane. Per qualche secondo sbattei le palpebre. Dovetti ampliare il campo visivo per ricordare che ero a casa di Stefano. Cioè di Luca amico di Stefano. Un senso di caldo alle gambe e acciambellata sul letto accanto ai miei piedi,  la gatta mi osservava con due enormi sfere gialle, immobile come una sfinge. Mi allungai a toccarla sotto il muso.

Girai la testa di lato e vidi Stefano accanto a me che dormiva ancora. La sera prima avevamo vagato per i locali di Roma, incontrato conoscenti di Stefano, ballato, io e lui, in compagnia, da soli. Ci eravamo divertiti, poi rientrando ci eravamo amati di nuovo. Era diverso dall’altra volta. Più tenero, appassionato. Pensai a quando di notte, addormentato, cambiando posizione si era girato dalla mia parte allungando un bacio nel buio, per poi continuare il suo sonno. Mi voltai di nuovo verso di lui. Dormiva agitato, a volte si scuoteva d’ un piccolo tremito breve, poi il suo respiro prendeva un ritmo più quieto, come un brutto sogno da cui si fosse svegliato, restando però ancora dentro al limbo del sonno. Pensai che era stato davvero molto dolce. Ed era così facile crederci. Ma lui dormiva. Ed era giorno ormai.   Tentai inutilmente di riaddormentarmi. Mi giravo e rigiravo, le gambe irrequiete. Guardai la luce oltre la persiana. Doveva essere ormai metà mattina. Mi chiesi quanto tempo sarebbe rimasto lì a Roma. Stefano si occupava della sicurezza per una società che organizzava eventi a livello internazionale. Era un lavoro delicato, un po’ silenzioso. Pensai che in fondo gli si addiceva. Aveva bisogno di sentirsi “speciale”, non avrebbe saputo rassegnarsi ad un impiego “comune”. Voleva essere uno “tosto”, efficiente, e in fondo il “militare” era quello che sapeva fare meglio. Ora che lo guardavo dormire però, la lunga cicatrice sulla coscia, un’altra più piccola sulla schiena, proprio sotto la scapola, mi appariva così fragile. Ricordai che aveva sognato sin da bambino di fare il calciatore, ed era bravo, ma all’età di 16 anni un grave infortunio aveva definitivamente concluso la sua carriera sportiva. Col servizio di leva, gli si era parata davanti la possibilità di una carriera militare, fatta di missioni dai lauti compensi. Ci si era buttato a capofitto fino a quando non ce l’aveva fatta più. Aveva mollato tutto. A volte mi chiedevo quanto c’era di tutto questo nei suoi silenzi.

Mi allungai e tirai la gatta vicina, presi a carezzarla dietro le orecchie. Non faceva grandi movimenti, si lasciava coccolare, strizzando gli occhi, crogiolandosi pigramente nel piacere. Mi rannicchiai in un angolo del letto, in attesa, la gatta sempre accanto, scrutando Stefano.

Non so quanto tempo trascorse. Infine mi alzai e mi chiusi in bagno facendo scorrere l’acqua nella doccia. Quando uscii sentii Stefano chiamare il mio nome. In camera non c’era. Mi venne incontro dallo studio, sporgendosi per un bacio.

“Mi sono svegliato e non c’eri più” disse.

“Dormivi” risposi.

“Potevi svegliarmi” insisté lui.

“Dormivi così bene” dissi ancora senza guardarlo.

“Mi avrebbe fatto piacere aprire gli occhi e trovare te.” disse alzando una mano a sfiorarmi la guancia.

 “In cucina ti ho lasciato del caffè caldo” aggiunse poi rientrando nello studio.

Mi avviai incerta. Come spiegare. Come Capire.

Dopo il caffè andai a vestirmi. Stefano mi raggiunse chiedendomi cosa volevo fare. In realtà volevo solo stare con lui ma qualcosa m’impediva di dirlo. “Quello che vuoi tu” dissi invece.

Con la moto di Luca andammo al mare, in un posto di nome Piovosa, mai sentito prima. La moto, altra cosa a me sconosciuta. Quando avevo provato a dirlo a Stefano lui si era messo a ridere.

“Ma di che hai paura!” aveva detto “Sei con me.”

Così non avevo più avuto il coraggio di parlare. Ero salita, avevo chiuso gli occhi e mi ero stretta a lui.

Piovosa era una caletta da qualche parte sulla costa dopo Nettuno. Ci trovammo poca gente. L’aria calda e il sole forte accrescevano quel senso di spossatezza che mi portava quasi ad arrendermi. Quello che mi piaceva di Stefano era che non dovevo per forza parlare. Se tacevo c’era comunque pace tra noi, se invece mi agitavo, diventavo aggressiva, non mi urlava contro, e non scappava via. Non che gli facesse piacere, magari mi gettava addosso un gelido “Attenta, non dire niente di cui domani potresti pentirti” , ma in qualche modo questo sembrava bastare ad abbassarmi i toni, e soprattutto, questo a me non appariva come “definitivo”, anziché spaventarmi mi calmavo.

Stefano era un pesce, gli piaceva stare in acqua, esattamente come non piaceva a me. E dovette portarmici di forza, tra le mie grida e movimenti convulsi e tentativi di sgusciare via, sotto gli occhi dei pochi sulla spiaggia che si voltavano curiosi a guardare. Il resto del tempo lo avevamo passato semistorditi dal sole, allungati l’uno accanto all’altro sulla sabbia.

Ci eravamo fermati a cena in una trattoria di mare, sulla strada del ritorno, poi avevamo guidato piano, nel buio, lui avanti io dietro, stretti vicini in un silenzio amico.

martedì 6 maggio 2008

Capita che a volte hai paura...


poi ti dici che non devi pensarci...che l'affronterai più in là...se e quando ci saranno rischi certi...


così vai avanti col tuo quotidiano...


apparentemente senza pensarci più...


e la paura invece è ormai dentro te...


ti ha contagiata...


ed esce fuori continuamente...


e tutti ti stanno alla larga...


oppure ti chiedono cosa c'è che non va...


perchè sei incazzata...


e così ti vedi che sei un cane rabbioso


ma non lo volevi


volevi non pensarci e cos'altro potevi fare senza arrivare a questo

venerdì 25 aprile 2008

Chi non ha ritegno



Della serie che non c'è limite alla stronzaggine della gente.


Della serie mi hanno chiamata dalla Cina in pieno giorno di festa.


A ribadire che tanto non avrei avuto niente da fare.
Che invece io mi ero preparata una notte quieta. Un risveglio dolce, un umore lento, adatto a creare.




Avevo sognato di avere solo questo da fare. Vivere di musica e parole. Poesia. Completare quell'opera di me. Quella storia che cerco di ricostruire.
Dela serie che invece non hanno ritegno.




Ho pensato per 4 ore come respingere quest'onda di sdegno che ho, questo mare di rabbia che inquina, e distrugge sommerge ciò che per oggi avevo preparato.
Ho tentato, cercato, ma sono ancora un piccolo soldato ubbidiente. Un legionario economico alla mercè.
Ora giaccio preda di 400ml di sauternes del 2002, incapace anche di vetirmi, digitare parole connesse, trangugio tea anniversay limited edition, attendendo un  qualche effetto ristoratore. Quasi aspetto una  nebbia salire a proteggere quel che ancora può restare di me.




Maledetto ciò che viene a distruggere. Me, la mia pace, e la mia vita.

martedì 25 marzo 2008

Cosa significa


avere una storia in mente


e una rete impedisce che scenda giù


e appaia lì


davanti a te


nero su bianco


quale meccanismo perverso


frena


di più


intralcia  l'ovvio e dovuto il necessario


ancora oggi continuo ad essere la più grande nemica di me stessa


paura di fallire


o paura di non essere poi così male


è davvero ridicolo


ora sto diventando ridicola

lunedì 24 marzo 2008

Se sapessi come fai

Se sapessi come fai


a fregartene cosi di me,


se potessi farlo anch'io


ogni volta che tu giochi


col nostro addio.





Se sapessi come fai


a esser sempre cosi certa


che io dico, dico ma alla fine


vengo sempre poi a pregarti


"non andare via".





Vorrei che per un giorno solo


le parti si potessero invertire:


quel giorno ti farei soffrire


come ora soffro io





Se sapessi come fai


a fregartene cosi di me,


a sapere cosi bene


sino a che punto ho bisogno di te,


a saperlo cosi bene


ancor meglio di me.

sabato 22 marzo 2008

Esperimenti

Un po’ per ansia, e un po’ per disperazione, quella sera uscii a bere qualcosa con un collega. Me lo chiedeva da tanto ed io dicevo no, grazie. Stavolta mi aveva preso alla sprovvista, senza nessuna risposta pronta da dare per rifiutare in modo ovvio e gentile. Ma era stato un errore. Certi uomini mi fanno sentire terribile. Se ne stava lì a guardarmi con gli occhi da pesce sul banco. Come fai anche solo ad immaginarti costruire qualcosa con qualcuno a cui capisci fai paura.
Diceva - “Allora che mi racconti di bello?” - e io pensavo che se me lo avesse chiesto ancora avrei potuto fare un gesto inconsulto, lì, davanti a tutti. Ma cosa mai avrei potuto “fare di bello”? Io!! Neanche non mi vedesse tutti i santi giorni in ufficio, con la testa china, cosa potevo raccontargli che non sapesse già? Lo avevo visto che gironzolava intorno alla mia stanza, quando facevo tardi in ufficio. Sapeva bene cosa facevo.  Ma quello sguardo!  Mi faceva sentire cattiva. Così rispondevo “Niente dai, raccontami tu qualcosa.”
Diceva “Sei mai stata sposata?”
Ecco qua, di bene in meglio. Rispondevo “No, mai. Che ne pensi della strategia di Bertelli con la Luxor?”. 
“Beh, è banale, non arriverà allo scopo” diceva lui giocherellando col piede del bicchiere. Lo stringeva delicatamente tra le dita, scuotendolo in senso circolare, facendo vorticare il vino, ne aspirava l’aroma, poi alzava il bicchiere per osservarne il colore. Mi faceva una rabbia. Come se avessi bisogno di effetti speciali! Io avevo bisogno di effetti normali, normalissimi.  Combattuta tra estrema irritazione e sensi di colpa sfuggivo il suo sguardo. Lui si muoveva  come su un campo minato. Io mi sentivo per esplodere.






Mi dicevo che in fondo dovevo capirlo, non doveva essere facile per lui. Arrivato qui da poco, città nuova, lavoro nuovo, impegnativo, poco tempo per fare conoscenze, alla nostra età, dopo che ti sei tuffato nel lavoro, e risvegliato improvvisamente da solo, e tra le braccia il tuo bell’impiego. Pensavo “Dai, non sarebbe neanche male. E’ curato, piuttosto elegante, belle mani”. E’ che non sopportavo come mi guardava. Davvero. E poi ero così stanca: di fingere, attuare strategie, cercare di essere allegra, socievole,  mostrare una leggerezza che da tanto ormai non provavo. Avrei voluto un uomo che dicesse “non importa se sei un po’ nervosa, ti capisco, sei andata troppo in là”.  Questo mi avrebbe fatta rilassare. Un uomo che dicesse “non preoccuparti, io vedo oltre” e che non mi facesse domande come “cosa mi racconti di bello”? Che non mi vedesse come una virago, che “mi” leggesse tra le righe…Lo so, non è possibile.


No, non era possibile, e così concludemmo la nostra unica serata, frustrati, tutti e due credo.