venerdì 25 dicembre 2009

Sono una persona felice

ore 20:05 nel piazzale del supermercato Esselunga di Prato Nord
Io, unica ultima solita ritardataria nel parcheggio, aggrovigliata di ombrello, borsa, chiavi, nascosta da cappotto, scialle, guanti e chissà cos'altro, sotto la pioggia torrenziale a fatica apro la bauliera della mia auto per caricare l'unica sporta della spesa, 
Si avvicina un "negrino", come lo chiamo io, un ragazzo di colore giovane, dal sorriso gentile, che non si vergogna a chiedere, ma lo fa col sorriso.
E' tutto scuro sotto un piccolo ombrello mezzo rotto, lui coperto da un giubbino che non solo non ripara dal freddo ma neppure dall'umido. Ho visto che lui ed altri si alternano, "raccattano" gli euri dei carrelli, e io il carrello non lo uso, quindi difficile che mi chiedano.
Però deve essersi avvicinato altre volte, anche in settimana mi pare, e ho risposto che non avevo monete. Non era una bugia, faccio parte di quelle persone che si riducono a volte senza neppure un euro nel portafoglio, un pò per disorganizzazione, ma soprattutto per via di brutte esperienze passate. Comunque mi era rimasta una specie di virgola nella pancia.
"Signora, mi dai qualcosa" - mi dice stasera.
"Non li ho" - rispondo.
Non è vero, stasera pochi ma li ho, solo non monete. E ho troppa paura di restare senza soldi per dare banconote.
"Tesoro, mi dispiace ma non sono ricca." rispondo senza guardarlo.
E anche questo è vero. So che pochi lo immaginerebbero, pochi hanno un'idea della mia vera situazione. Non faccio sfarzi, conduco una vita normale di persona assolutamente comune, ma la verità è che sto molto peggio, nessuno può immaginare i debiti, la mancanza di soldi, e la paura di perdere la dignità, restare senza lavoro, senza l'unica possibilità di far fronte alle rate. A volte mi sveglio la notte con la paura dentro, paura che accada qualcosa che non mi permetta di far fronte al piano serrato concordato con la banca per molti anni ancora.
"Ma è Natale" risponde lui con un tono un pò da bambino, mentre io chiudo lo sportello e mi avvio per salire in auto. E' così fastidiosa la virgola nella pancia. Istintivamente faccio due passi indietro, riapro la bauliera e allungo una mano frugando dentro ad un sacchetto; tiro fuori un pacco da 350 grammi di krisprolls integrali, non quelli originali naturalmente, quelli "taroccati" a marca del supermercato, secondo strategie per una  spesa più conscienziosa.
Chiudo lo sportello e dico prima ancora di voltarmi "Se non ti offendi...."
E lì accade qualcosa....
E' stato un attimo, perchè lui aveva capito prima ancora che parlassi, e si era lanciato verso di me, un sorriso fino agli orecchi e gli occhi che luccicavano nel buio.
"No, no, mi piacciono!" ha detto prendendo il sacchetto dalle mie mani e sorridendo.
Non avevo mai dato da mangiare a un affamato. Non è una litania, è stato veramente così. Ho offerto carezze, sorrisi, conforto a persone che stavano male, e ho letto gratitudine nei loro occhi, ma mai, mai, mi era capitato di dar da mangiare a un affamato. E' qualcosa che non c'entra con Cristo, e la religione, la chiesa e il Natale.
Non so descrivervi cosa ho visto ma non dimenticherò mai i suoi occhi nel momento che ha capito gli stavo offrendo da mangiare. 
Mentre si allontanava per stare da solo ho percepito la sua eccitazione nel cercare di strappare il sacchetto che non si apriva; era come una bolla, un'aura che lo circondava.
Il parcheggio veniva chiuso per la notte e lui, uscendo sotto l'ombrello rotto e la pioggia torrenziale, continuando a tentare di strappare il sacchetto, faceva grandi cenni di ringraziamento e saluto verso me, sempre con quel sorriso enorme.
"Buon Natale, buon Natale" continuava ad urlarmi.
So che può sembrare assurdo ma questi sono i momenti in cui vedo Dio. Perchè lui non ti parla come fa un tuo amico, Dio ti fa accadere le cose attorno, sta a te poi vedere.
Sono andata dai miei e sono rimasta lì un'oretta, stanca della giornata, sudata e desiderosa di una doccia, ma felice, oh così felice.
Nella mia auto c'è una cartella col portatile del lavoro e un pacco di documenti alto 6 centimetri. Sono molte ore di lavoro, documenti che probabilmente dovrò valutare domani sera, e sabato, e domenica, ma non importa. La mia spesa è piccola ma non importa. Ho una bottiglia di vino che mi sto gustando mentre scrivo, e il tavolo ricoperto di libri e bella biancheria da regalare ai miei amici. Si, ho "sprecato" ben 300 Euri per comperare tanti piccoli, davvero piccoli, regali per tutti i miei familiari ed amici cari. Avevo detto quest'anno di non fare regali ma pareva un Natale così triste, un Natale senza quel senso di famiglia, di coesione, che mi manca tanto e che trovo invece nel gesto di scambiarsi piccoli doni; quel senso di amore e condivisione che è così bello da sentire, e fa c
aldo al cuore.
Mi sento una regina. Rivedo ancora quegli occhi nel buio della notte sotto la pioggia.
Magari domani tornerò a lamentarmi ma stasera sono proprio felice, fortunata e molto felice.

domenica 20 dicembre 2009

La neve


La neve è arrivata. Quando accade resti sempre sorpreso tanto appare irreale. L’aria si riempie di puntini che sembra non cadere ma solo fluttuare. Poi tutto si ricopre di un mantello bianco e perfetto, e allora capisci che è vero.
La mattina si era presentata come una giornata limpida e piena di sole, di quelle sporadiche in inverno, col cielo terso, il freddo tagliente, e una luce che fa sbattere gli occhi. Era un peccato rinchiudersi, avevo pensato mentre andavo in ufficio. Avrei desiderato, che so, farmi 10 chilometri a piedi, come accadeva ai tempi di New York, quando andavo su è giù per le “avenues” col trolley carico, eccitata dal sole. Qualche ora più tardi mi ero voltata verso la finestra, e avevo visto che il cielo era diventato plumbeo. “Sembra di stare in montagna”, avevo detto alla mia collega. 
Io odio la montagna.  Mi ricorda le stagioni della casa in affitto, col mio fidanzato, del compromesso per sopravvivere ai weekend di coppia, per evitare quel “allora cosa si fa”.


Noi la prendevamo al Cimone. Sestola piace anche a me che non scio, poi la gente è cordiale e tutto appare meno tetro. L’unico periodo della mia vita in cui ho cucinato, lunghe maestose cene organizzate al sabato sera, coi pomeriggi trascorsi alla ricerca del menù perfetto, e la casa riempita di gente, scarponi, chiacchiere e allegria. Ciò nonostante non l’ho mai amata. L’ho subita. Per amore, necessità, ragionamento logico. Niente a che vedere col mare. Lì sto bene, mi dà gioia anche quando è triste, anzi, nella malinconia più acuta mi è affine. Io che lo temo, non so nuotare, mi schifo della sabbia appiccicosa, il mare lo adoro in tutte le sue salse: punta massima d'inverno, dopo la pioggia, quando non c’è nessuno e l’aria profuma di freddo e sale. C’è qualcosa d’impetuoso e sconosciuto  nel mare, anche quando è calmo, una forza che percepisco e diventa mia. Il mare, non quello addomesticato, fatto di corpi sovraesposti, ciabatte alla moda e completini colorati. No, quello vero, selvatico.


La montagna è morte istantanea, forse per questo ho ignorato la finestra sistematicamente, quasi con intenzione, fino alle otto di sera. Fino a quando, aspettando che S. richiamasse da New York, giostrando sulla poltrona, non mi è apparso un chiarore oltre la porta finestra; la mia auto parcheggiata sotto gli alberi coperta da un mantello, alto di neve indelebile, e i prati, le aiuole della stazione, il piazzale sotto, tutto sommerso, immacolato e bianco.
Le luci delle auto proseguono a passo d’uomo sulla strada, di tanto in tanto accendono il bianco sulla mia auto, inerte sotto i grandi tigli spogli e carichi di neve. Tutto è così irreale.
Chiama mia madre, come stai, vieni a casa.
Chiama mio padre, dal suo telefono nella stanza accanto a mia madre, vieni via, la neve è dappertutto.
Dai babbo, mica siamo sull’Appennino, sono in città, che vuoi che sia un po’ di neve, fammi andare che S. deve chiamare.
Sono rassegnata ma vorrei essere a casa, questa neve fa un effetto strano, accentua l’assurdità. Di me, di questo venerdì sera, della vita che non è ancora finita, del lavoro come una catena.  Come vorrei, ora, quell’unica persona, che sa vedere, capire, leggere in questa confusione e mirare dritto al punto.
Cazzo, sempre questi sogni. La neve continua a cadere e io aspetto. La prossima telefonata, altre istruzioni, indicazioni. Ma come fai a sopportarlo.  Mai il 100% di attenzione, c’è sempre un’altra chiamata, una nuova emergenza, tu che passi in secondo piano, anche se sono le nove di sera, anche se è venerdì e dovresti essere altrove. Ma c’è questo senso di pena che percepisci e non sai ignorare, di come le cose vanno male e in fondo sei coinvolta, e lui è despota ma debole. Non riesci a non odiarlo per il male che ti ha fatto in questi 5 anni, ma d’altronde che alternativa c’è, nessuna. Sei sulla barca, e il senso di pena è dove ti frega sempre, dove tu cedi e lui no. Così aspetti l’ennesima chiamata, ed esci dall’ufficio finalmente, nel silenzio della notte bianca, con le auto che passano piano, come in un video senza audio.
Torni a casa incerta sul ghiaccio, a passo d’uomo, ma più di tutto ti sorprende quella sensazione, irreale come quando una voce ti parla dentro. La neve rende tutto più lento, come a riprendere il ritmo. E anche a piedi non incontri un’anima. Il guardiano del parcheggio è murato nel gabbiotto, attraversi il centro storico nel silenzio, con la neve che ti cade addosso, e ti rifugi in casa pensando, tra e-mail, musica, vino e tanto stordimento.
Dei ragazzi schiamazzano facendo a pallate, surreale in piazza del Duomo; li spii dalla finestra e poi trascorri la notte alzata, e sogni, no, t’interroghi, “cosa mi porterà domani”.
La neve è arrivata in silenzio e ha rallentato tutto. Pare un segnale.

sabato 5 dicembre 2009

Santa Barbara Benedetta



Che in fondo è questa stanchezza della vita ciò che mi dà più pena.


Questa tristezza che ingrigisce ogni giorno come una ragnatela, e mi fa sentire come se avessi cent’anni.


Certo è che faccio una vitaccia. Al lavoro da mattino a notte fonda, a cento all’ora, senza soste, col cibo ingozzato sul computer, col panico di quello che non riesci a fare, dell’errore latente perché quando sei sotto pressione facile che fai anche qualche cazzata, della vita personale completamente ignorata al punto che sai che tra qualche anno spunterà, che so, una cartella della tasse, un qualche impianto che non hai revisionato, un dettaglio che, completamente assente, hai glissato in quel tuo menage familiare di single a oltranza, a rappresentare anche fisicamente la tua completa assenza dal privato.


E su tutto la gabbia. La consapevolezza di farlo solo per arrivare a fine mese, per i debiti da pagare, la crisi che non dà tregua e non dà alternative ad una donna di 47 anni, anche se con esperienza da offrire, chi se ne frega. In Italia non esiste professionalità, l’esperienza, specie femminile, non vale niente, sei solo roba vecchia che costa. La gabbia di subire un lavoro disumano, dove conta solo l’azienda e il risparmio aziendale, e di te resta una palla di rabbia, un fascio di nervi odiato e criticato perché non sorride più, non scherza più, li odia tutti e li mette in discussione, loro poveri ometti meschini. Che ti criticano, che non va mai bene nulla, che qui non si compensa l’effort ma la performance, che ti circondano di incompetenti ma la colpa è sempre tua, tua che hai “un sacco di persone che fanno le cose per te”.


“Sei come tua madre, l’eterna scontenta”, diceva mia nonna.


Certo, il mantra me lo ripeto continuamente. Come sono fortunata, ho un lavoro, pago l’affitto, le bollette, il prestito. Non resta altro. Punto.


E’  venerdi, sono tornata a casa alle 22 dall’ufficio, un’altr’ora e mezza di e-mails a casa e poi finalmente mi dedico alla cena. Insalata, stracchino, un bicchiere di morellino. Sarà quello che mi fa ribollire così.


O forse è il film che finalmente vedo a mezzanotte. E’venerdi e Mamma Mia. E allora in quel musical spensierato (Mamma mia quant’è brava Meryl Streep, non c’è verso, è brava e basta), al blu blu e bianco bianco bianco di quell’isola greca, a quella luce meravigliosa, mi sono ricordata di Mykonos, dei mie 23 anni, di come ero spensierata e leggiadra.


Non felice ma un’altra.  


Mi sono ricordata (di più, evocata, riemersa) di quella mia essenza che non è morta lo so, ma è sommersa sotto strati e strati e strati di esigenze, e necessità, e doveri, e chissà come si fa a ritrovarla. E una nostalgia profonda si è fatta strada e ora mi avvolge con lunghe lunghissime spire e stringe, stringe, e ho la strana sensazione come di aver davvero bevuto, in quel tipico fluttuare tra “brillità”  e normalità. Questi sono i momenti più difficili, quelli che so, che ci sono dentro io che busso per uscire, da questa corazza di fumo confuso.


“I have a dream “ canta la canzone.


I have a dream, I have a dream, I have a dream.


Dov’è finito quel sogno, quel sogno che mi fa fare cose sciocche, come mandare indietro le lancette fino a restare all’infinito nel 4 dicembre, come se fosse la mia festa per sempre, fossi per sempre il centro dell’universo, più facile da raggiungere, più semplice da recuperare.  Sos, venite a salvarmi.  Ho 47 anni. E chi se ne frega. Ho 47 anni. E allora. Sono adulta. Ma chi lo dice.


Ma vedi. Ci sono momenti, microattimi, in cui non ce la fai a scappare, ti trovi davanti a uno specchio e guardi, e poi quell’immagine t’insegue e persegue. Così io sfuggo ciò che sono diventata, che non curo tanto odio. E sfuggo il mio sogno ma talvolta lo ricordo. E qui posso finalmente ammetterlo. Qui, dove nessuno mi conosce e nessuno mi vede. Sognavo che l’altro me incontrato fosse appunto come me, responsabile e un po’ severo di giorno, ma la sera, il venerdì sera ecco, con me e come me chiudesse la porta, e diventasse la pubblicità Martini. Ecco il sogno. Noi, e che importa il resto: è solo 'quello che vediamo noi due. We have a dream, our only dream. Non esiste altro, possiamo essere tutto e dappertutto. In fondo è solo questione di complicità.


Poi arriva il pensiero parallelo, malefico, che mi ricorda i miei vent’anni e di come ridevo delle persone patetiche di mezz’età. Rido meno ora. Perché se ho un merito è di saper vedere la realtà, e so bene quando e quanto divento patetica.


Una mia amica, nei fumi dell’affetto, dice che è un peccato nessuno mi veda nell’intimità, che vanno “sprecate” un sacco di cose. Io penso invece, che in fondo questo è parte del quadro patetico, chi vale qualcosa riesce a farsi apprezzare comunque. Questo mio essere fa parte di quella decadenza, un po’ demodè, un po’ vecchia, insomma, patetica. E penso che nella mia vita c’è un buco. Si, tra giovane e vecchio. Non si capisce bene dove sono finita nel periodo intermedio, non ho fatto niente, non ho sperimentato. Dov’ero? Had I a dream? What was I? C’è un’amnesia ma una luce pazzesca, e un mare blù e un suono di estate nella mia testa, un sogno latente che, credo, resterebbe lì campassi cent’anni. C’è un sentirmi vecchia e bambina, anche a cent’anni. I have a dream.


Sos, venite a salvarmi.