venerdì 9 maggio 2008

Risveglio


La sensazione nebulosa di essere spinta via lontano e riaffiorai dal sonno. Su un angolo tra parete e soffitto si allargavano i raggi del sole mattutino che filtrava dalle persiane. Per qualche secondo sbattei le palpebre. Dovetti ampliare il campo visivo per ricordare che ero a casa di Stefano. Cioè di Luca amico di Stefano. Un senso di caldo alle gambe e acciambellata sul letto accanto ai miei piedi,  la gatta mi osservava con due enormi sfere gialle, immobile come una sfinge. Mi allungai a toccarla sotto il muso.

Girai la testa di lato e vidi Stefano accanto a me che dormiva ancora. La sera prima avevamo vagato per i locali di Roma, incontrato conoscenti di Stefano, ballato, io e lui, in compagnia, da soli. Ci eravamo divertiti, poi rientrando ci eravamo amati di nuovo. Era diverso dall’altra volta. Più tenero, appassionato. Pensai a quando di notte, addormentato, cambiando posizione si era girato dalla mia parte allungando un bacio nel buio, per poi continuare il suo sonno. Mi voltai di nuovo verso di lui. Dormiva agitato, a volte si scuoteva d’ un piccolo tremito breve, poi il suo respiro prendeva un ritmo più quieto, come un brutto sogno da cui si fosse svegliato, restando però ancora dentro al limbo del sonno. Pensai che era stato davvero molto dolce. Ed era così facile crederci. Ma lui dormiva. Ed era giorno ormai.   Tentai inutilmente di riaddormentarmi. Mi giravo e rigiravo, le gambe irrequiete. Guardai la luce oltre la persiana. Doveva essere ormai metà mattina. Mi chiesi quanto tempo sarebbe rimasto lì a Roma. Stefano si occupava della sicurezza per una società che organizzava eventi a livello internazionale. Era un lavoro delicato, un po’ silenzioso. Pensai che in fondo gli si addiceva. Aveva bisogno di sentirsi “speciale”, non avrebbe saputo rassegnarsi ad un impiego “comune”. Voleva essere uno “tosto”, efficiente, e in fondo il “militare” era quello che sapeva fare meglio. Ora che lo guardavo dormire però, la lunga cicatrice sulla coscia, un’altra più piccola sulla schiena, proprio sotto la scapola, mi appariva così fragile. Ricordai che aveva sognato sin da bambino di fare il calciatore, ed era bravo, ma all’età di 16 anni un grave infortunio aveva definitivamente concluso la sua carriera sportiva. Col servizio di leva, gli si era parata davanti la possibilità di una carriera militare, fatta di missioni dai lauti compensi. Ci si era buttato a capofitto fino a quando non ce l’aveva fatta più. Aveva mollato tutto. A volte mi chiedevo quanto c’era di tutto questo nei suoi silenzi.

Mi allungai e tirai la gatta vicina, presi a carezzarla dietro le orecchie. Non faceva grandi movimenti, si lasciava coccolare, strizzando gli occhi, crogiolandosi pigramente nel piacere. Mi rannicchiai in un angolo del letto, in attesa, la gatta sempre accanto, scrutando Stefano.

Non so quanto tempo trascorse. Infine mi alzai e mi chiusi in bagno facendo scorrere l’acqua nella doccia. Quando uscii sentii Stefano chiamare il mio nome. In camera non c’era. Mi venne incontro dallo studio, sporgendosi per un bacio.

“Mi sono svegliato e non c’eri più” disse.

“Dormivi” risposi.

“Potevi svegliarmi” insisté lui.

“Dormivi così bene” dissi ancora senza guardarlo.

“Mi avrebbe fatto piacere aprire gli occhi e trovare te.” disse alzando una mano a sfiorarmi la guancia.

 “In cucina ti ho lasciato del caffè caldo” aggiunse poi rientrando nello studio.

Mi avviai incerta. Come spiegare. Come Capire.

Dopo il caffè andai a vestirmi. Stefano mi raggiunse chiedendomi cosa volevo fare. In realtà volevo solo stare con lui ma qualcosa m’impediva di dirlo. “Quello che vuoi tu” dissi invece.

Con la moto di Luca andammo al mare, in un posto di nome Piovosa, mai sentito prima. La moto, altra cosa a me sconosciuta. Quando avevo provato a dirlo a Stefano lui si era messo a ridere.

“Ma di che hai paura!” aveva detto “Sei con me.”

Così non avevo più avuto il coraggio di parlare. Ero salita, avevo chiuso gli occhi e mi ero stretta a lui.

Piovosa era una caletta da qualche parte sulla costa dopo Nettuno. Ci trovammo poca gente. L’aria calda e il sole forte accrescevano quel senso di spossatezza che mi portava quasi ad arrendermi. Quello che mi piaceva di Stefano era che non dovevo per forza parlare. Se tacevo c’era comunque pace tra noi, se invece mi agitavo, diventavo aggressiva, non mi urlava contro, e non scappava via. Non che gli facesse piacere, magari mi gettava addosso un gelido “Attenta, non dire niente di cui domani potresti pentirti” , ma in qualche modo questo sembrava bastare ad abbassarmi i toni, e soprattutto, questo a me non appariva come “definitivo”, anziché spaventarmi mi calmavo.

Stefano era un pesce, gli piaceva stare in acqua, esattamente come non piaceva a me. E dovette portarmici di forza, tra le mie grida e movimenti convulsi e tentativi di sgusciare via, sotto gli occhi dei pochi sulla spiaggia che si voltavano curiosi a guardare. Il resto del tempo lo avevamo passato semistorditi dal sole, allungati l’uno accanto all’altro sulla sabbia.

Ci eravamo fermati a cena in una trattoria di mare, sulla strada del ritorno, poi avevamo guidato piano, nel buio, lui avanti io dietro, stretti vicini in un silenzio amico.

martedì 6 maggio 2008

Capita che a volte hai paura...


poi ti dici che non devi pensarci...che l'affronterai più in là...se e quando ci saranno rischi certi...


così vai avanti col tuo quotidiano...


apparentemente senza pensarci più...


e la paura invece è ormai dentro te...


ti ha contagiata...


ed esce fuori continuamente...


e tutti ti stanno alla larga...


oppure ti chiedono cosa c'è che non va...


perchè sei incazzata...


e così ti vedi che sei un cane rabbioso


ma non lo volevi


volevi non pensarci e cos'altro potevi fare senza arrivare a questo