martedì 11 dicembre 2007

Vittoria


Oggi è il 9 dicembre 2007. E’ nata Vittoria.




Una volta mi hai detto che noi siamo vicine solo nei momenti difficili, “siamo amiche nel dolore” hai detto.


Ho riflettuto a lungo su queste parole, tornandoci col pensiero di tanto in tanto.




Oggi posso dire che si, è vero, siamo amiche nel dolore. Non per via di te, certo, per via di me.


Ho compreso che certamente so essere partecipe e in modo empatico, nei momenti di dolore. Nelle emergenze vengo colpita nel profondo, mi accendo, e allora riesco ad esserci, a donare tutto quello che in quel momento io posso: tutto il dolore che c’è dentro di me.


E’ quella condivisione che fa si che le persone mi sentano vicina, è quella identificazione il motivo per cui riescono a volermi bene.




Fuori da quel dolore non so dare nulla. Non riesco a costruire qualcosa di stabile, di duraturo. Qualcosa con alti e bassi si, ma che sia più “normale”.


Nella normalità non ho niente da dare. Non ho niente in comune con la stabilità. Quotidiano e consuetudine trovano in me soltanto solitudine, tristezza, depressione. Non sone cose che si possono donare.




Forse dovevo scegliermi una vita di assistenza, avrei gratificato la mia tristezza, donando agli altri la mia comprensione statica, soffrendo con loro sino a quando, sfinita, non avessi deciso di lasciare tutto.




Si dice che c’è un momento della vita, un istante, in cui improvvisamente tutto è chiaro, in cui si capisce il perché del nostro passaggio sulla terra.


Io non l’ho ancora vissuto, ancora non si è accesa questa fiammella.




Forse è anche per questo che non ti sono stata accanto in questi otto mesi, perchè non sono riuscita a condividere con te la gioia di quest’attesa.




Ognuno ha un proprio modo di essere generoso, in base ai propri mezzi, a ciò che crede di avere.


Perciò non ti dirò niente di tutto questo, non voglio guastare né oggi né mai la gioia di Vittoria.




Vittoria, anche il nome è di buon auspicio.  Perciò ben arrivata Vittoria. E così sia.

Beatrice Messi

Sta seduta in auto, in mezzo al parcheggio. Continua a piovere, il grigio si mescola all’umidità, e non c’è verso  far riprendere quota a questa giornata.

Pensa che dovrebbe già essere in ufficio, invece sta qui, con le mani sul volante e il motore spento, sballottata tra le parole che ancora le ronzano in testa e il rigetto di tornare al lavoro.

Forse il Dr T ha ragione, forse ha sbagliato tutto, ha deciso lei per tutti, ma che ne sa lei del mondo, delle altre persone. Che ne sa lei, lei che crede che gli uomini siano tutti uguali, lei che fede non ne ha più. Ma in fondo, ne ha mai avuta?


Mette in moto e si avvia al lavoro, cercando una spinta, come una scorta di energia che l’aiuti a finire la giornata.

E ‘ da un po’ di tempo che si scopre a piangersi addosso, brutta bestia, lei le persone così non le ha mai potute sopportare, sempre lì a lagnarsi senza far niente, e ora succede a lei, non si capacita perché, cosa è successo?

Il fatto è che la solitudine ti cambia, non ti confronti con altri che te stesso, e sei preso da una specie di pigrizia, un’inerzia generalizzata.


Quando era giovane tutti venivano a parlare da lei, a raccontarle i loro tormenti, a volte ne era persino infastidita.

Lei trovava sempre una soluzione, li faceva riflettere, li riportava “a capo”, e tutti dopo le dicevano “grazie Beatrice” - “avevo proprio bisogno di parlare con te Beatrice” - “senza di te non so come farei ad affrontare i miei casini”.

Insomma, lei dava senno e grinta a tutti, ma per se stessa, beh, non è che fosse proprio una cima. Se ne stava alla larga ecco, alla larga dalle cazzate. Era una “seria”, e lo sapevano tutti, una severa, che non si perdeva nelle sciocchezze.

Per gli amici c’era sempre, ma raramente la coinvolgevano in qualcosa fuori dagli schemi. Forse in parte la temevano persino. Lei, quella seria.

Si ricorda ancora di quel collega, Carlo, di un anno maggiore di lei, che un fine settimana si era ritrovato in mezzo ad un gruppo di una ventina di persone. Dopo la discoteca erano emigrati al mare a casa di uno di loro e avevano fatto mattina, qualche bicchiere di troppo, qualche canna, e lui era proprio fuori di brutto. A questa serata Beatrice non c’era ma c’era sua cugina, e il suo collega, beh, lui aveva letteralmente implorato sua cugina di non raccontare niente a Beatrice. L’aveva fatta addirittura giurare.

Ovviamente sua cugina aveva giurato e raccontato subito tutto a Beatrice, che si era stranita di sapere, non tanto che Carlo si facesse le canne ma piuttosto che si fosse preoccupato che non lo sapesse lei. A quanto pare gli altri la vedevano come una bigottona, eppure lei sapeva di non essere così.


In ufficio non c’è nessuno, sono ancora tutti a pranzo. Accende il computer e il vortice delle emails la inghiotte. Potrebbe accadere qualsiasi cosa nel mondo ma lì davanti a quello schermo i momenti sono tutti uguali, non c’è più differenza tra i giorni, i mesi che passano, scanditi solo dal loro ritmo virtuale, non ci sono più i tempi tradizionali, l’ora di pranzo, di cena, di dormire, niente è più come dev’essere.  Prima non ci faceva caso, ora però le pesa. Nella sua vita ormai i tempi sono quelli del lavoro, e lei è stanca. Perché a 44 anni cominci ad accusare i pranzi cattivi fatti al computer, le cene sbocconcellate di notte, le ore di sonno mancate, i tempi lunghi seduta con la schiena in fiamme, ma anche e soprattutto perché 44 anni chiusi nel solo lavoro ti fanno capire che questa non è più la solitudine che ti sei scelta. Capisci che questo è qualcos’altro che non sai più cos’è ma non lo vuoi. Non lo vuoi.


La sua collega è rientrata, sta parlando al telefono. Il bambino è ammalato e lei è in difficoltà. Beatrice pensa a quanto deve essere bello avere qualcuno che dipende da te, che ti obbliga a svegliarti al mattino, a cucinare, a lavare, qualcuno a cui parlare, e mentre lo fai ti guarda assetato, beve le tue parole senza incertezze. Due braccine che ti si stringono addosso, le mani grassottelle che ti strizzano le guance.

Si, è proprio stanca.

giovedì 22 febbraio 2007

Ci sarebbe da chiedersi...


cosa si prova a sentirsi dire ti voglio bene


dipende da chi lo dice...mi direte forse
da come lo dice



ma che all'affetto si posson metter condizioni
insegnare tempi e modi?!...no!!!
sentirsi dire "ti voglio bene" fa un gran bene



chissà se per tutti è lo stesso...no certamente no
sono quasi certa che per taluni ogni volta è importante...prezioso
per altri...i più indifferenti e disattenti...meno



io che attenta ci sono stata sempre troppo...
a non dirlo a sproposito
ad arrabbiarmi quasi...se mi si dicevano quelle parole quando...secondo me...non era possibile



insomma anche all'affetto ho messo i soliti puntini...
occhi e orecchie chiuse



non sono cambiata eh...non è cambiato niente
continuo a fare come sempre
solo che...5 minuti fa...
il tuo "ti voglio bene" mi ha fatto un gran piacere...proprio il classico cuoricinoinoino



che vi devo dire...forse è meglio se smetto di fare la suocera e prendo quello che viene


magari mi hai voluto bene un attimo
ma quell'attimo è stato proprio dolce
grazie fra',
Baci, B